L'EDITORIALE
Considerazioni dopo l’attentato di Boston di Flavia Pankiewicz
V
ai a vedere l’arrivo di una maratona. Un momento di gioia, di entusiasmo. Poi, in un attimo, un boato. E l’allegria si trasforma in tragedia, l’entusiasmo in terrore. Sul campo restano alcuni morti, tra cui un bambino, e feriti, in queste prime ore si parla di quasi duecento feriti, molti amputati. Vai a vedere una maratona perché forse anche tu sei uno sportivo dilettante… e ti ritrovi senza gambe.
È successo nella civilissima Boston, la più europea tra le città americane, famosa anche per l’eccellenza dell’Università di Harvard. È successo ancora una volta in quell’America che per molti decenni è stata la “terra dei sogni”, il paese delle opportunità, l’universo in cui se puoi sognarlo puoi farlo. E se l’immane barbarie dell’11 settembre a quel sogno americano aveva inflitto un colpo durissimo, la scia di sangue dell’ultimo decennio non ha migliorato le cose: i bambini trucidati nella scuola elementare di Sandy Hook, la strage degli spettatori del cinema di Aurora, il massacro del Virginia Polytechnic Institute. E degli anni precedenti al 2001 restano impressi l’omicidio di massa della Columbine High School (portato sul grande schermo da un’incisiva opera di Michael Moore), l’orrendo attentato di Oklaoma City, con i suoi 168 morti, l’infame bomba alle Olimpiadi di Atlanta. La follia di killer che commettono stragi e l’efferatezza degli attentati terroristici sembrano diventati la cifra del paese. E nessuna indagine sociologica trova risposte convincenti per tanta violenza insensata.
Certo la follia non ha confini. Nel 2005 gli attentati di Londra hanno riportato anche in Europa il panico da bombe, e nel 2011 la strage di Utoya, in Norvegia, con oltre 90 morti, ha dato al Vecchio Continente la sua dose di orrore da omicidio di massa. Nel maggio dello scorso anno è stata la volta di una scuola pugliese. L’orrendo attentato di un folle davanti alla Morvillo-Falcone di Brindisi ha ucciso una ragazza di 16 anni e ne ha ferito gravemente altre.
In America i provvedimenti promessi da Obama per rendere meno facile l’accesso al possesso di armi sono invocati a gran voce, e non solo dai parenti delle tante vittime. Sradicare la follia omicida è impossibile ma senza fucili automatici, senza armi d’assalto, i danni non potrebbero essere così catastrofici. E fermare un fanatico che voglia piazzare una bomba nei posti più impensati è molto difficile ma non impossibile. In anni recenti, sono stati sventati attentati alla metropolitana di New York, a Times Square, alla Federal Reserve, in un cinema dell’Ohio.
Nel 2012 uno degli slogan più famosi d’America ha compiuto dieci anni. Nel dicembre 2002 fu adottata dalla Metropolitan Transportation Authority di New York la campagna pubblicitaria creata dalla Korey Kay & Partners per invitare i passeggeri a denunciare pacchi e oggetti sospetti. Il celebre slogan, tuttora in uso, è “If you see something, say something” (Se vedi qualcosa, di’qualcosa). I treni e le stazioni della metropolitana di New York ne sono stati tappezzati. E il suo successo continua a crescere: è nel sito che ospita la Statua della Libertà (nella baia di Manhattan), a Chicago, nel Maryland ed è comparso persino in occasioni come il Super Bowl.
Invitare milioni di persone a “prestare attenzione”, reclutarli come collaboratori in una colossale operazione di prevenzione del terrorismo è una scelta quanto mai intelligente. “If you see something, say something” è una campagna che dovrebbe essere diffusa e rafforzata dovunque ci siano luoghi di aggregazione. Come nei vecchi western americani è ora che “i buoni” si organizzino contro “i cattivi”, ma con le sole armi dello sguardo, dell’attenzione, della prevenzione. Contro la barbarie del terrorismo e della violenza è il senso civico che potrà salvarci.
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