LA POESIA
I
Quale sarebbe stata la mia vita
se nel luogo natio fossi rimasto?
Quali sogni diversi
sognerei oggi? Non posso nemmeno
paragonare il mio stato umano
con quello d’una pianta
divelta dal suo salubre terreno
e altrove ripiantata sotto l’identico cielo.
Come a me l’alto disegno del Fato,
per sempre incomprensibile
sarà la mia stessa domanda
all’unità immortale del tutto:
montagna e roccia che la forma, oceani
ed onde che li creano, cielo e nube,
e sole e luce. Tutto questo scindi
ed hai deserto, voragine e notte.
Eppure più non sono
l’uomo ch’io ero: le radici da cui
son germinato sono oggi altrove.
Sbarbicato! È questo il vocabolo che cela
la storia dolorosa
di chi ha perduto con la giovinezza
perfino le radici?
Quale sarebbe la mia vita oggi
s’io fossi in mezzo ai miei alberi restato?
II
Mi si lasci stasera pensare
alla forma delle stelle –
non all’illimite magma che confonde
l’umano pensiero il cui trionfo è il dubbio
né ai translucidi suoni
che dal centro delle infinità
elettrizzano corpi celesti vicini e remoti
creando soli oltre il sole a me noto.
La forma, mi si lasci pensare
alla forma delle stelle stasera.
Qualcosa mi dice che anch’io son nato
sotto il segno d’una di esse
fatta a foggia di nave
affollata di povera gente,
silenziosi emigranti:
la mia etnica stella.
III
Rimpiango le mie origini parlando
questa lingua imparata? Rinuncio,
discorrendo in termini di dreams,
ai sogni della mia adolescenza?
Che cosa è in me mutato, ch’io credevo
immutabile? Qualcosa è pur cambiato,
lo sento. Ogni pensiero, ogni parola
ogni giorno di più mi distacca
da tutto quello che solevo amare:
il vostro viso, o amici d’un tempo,
e quelle nostre frasi d’allegrezza
che non c’era bisogno di tradurre.
Madre, io oggi mi chiedo perfino
se sono il fanciullo che ero e che tu conoscevi.
Non t’aspettavi tu che il tuo piccolo bimbo
crescesse lontano da quello che era il tuo mondo,
il mondo ch’egli imparò ad amare
attraverso i tuoi occhi:
semplice e intraducibile,
fatto di un’unica luce perfetta.
Ma all’improvviso gli insegnarono a dire
Mother per mamma e per cielo sky:
quel giorno, ci perdemmo. Ora mi guardi
come se io fossi un po’ di più, ed anche
un po’ di meno, di quello che un figlio –
il tuo bambino – dovrebbe essere.
Sì, m’hanno insegnato a tradurre ogni cosa,
anche me stesso, in una qualche nuova
e antica immensità di radici e rami,
sì che ora mi domando chi sono
sotto lo sky di mia terra da tempo perduta.
IV
Da tempo perduta, era tal la mia terra
che, pur di nevi piena,
non cancellava il sogno
della mia mente serena.
Ma semplice era il sogno
nel pensiero illuminato,
semplice come l’ultimo raggio
di un sole inabissato:
papier-mâché invece di veri pastori,
muschio dipinto
in luogo d’un prato d’aprile,
e invece di lume vivente
pastelli colorati
in ogni angolo affissi:
ed ecco in forme diverse
la mia cosmica meraviglia.
Mio quel presepio, colmo
di Tu scendi dalle stelle,
unico canto e condizione
d’intime cose belle.
Ma ora la mia terra
è l’emisfero occidentale,
questa Atlantide misteriosa
ove uomini come me e te,
di nome emigranti, a Natale
non cantano Silent Night
ma possono solo pensare
a un presepio oltre il mare.
V
Due lingue, due terre, forse due anime?
Non oso chiederlo a questi fiori familiari,
ciascuno dotato d’una singola lustra corolla.
Né oso domandarlo a quella quercia severa
dalle lunghe e profonde radici
che si arrestano innanzi all’ostacolo del vicino ruscello
quasi aborrendo estraneità di suolo.
Chi può dunque risolvere l’enigma del mio giorno?
Due lingue, due terre, forse due anime...
Son io un uomo o due strane metà d’uno solo?
Sobria luce indifferente
che innanzi a me con lucido ghigno tramonti,
poiché non c’è risposta al mio dilemma,
mi consolo pensando che anch’io,
al pari della terra che non deve
proclamare d’un tratto il tuo completo trionfo,
devo, in attesa della mia aurora,
diventare la notte di me stesso.
O forse, come la tua incontrollata fiamma
distruggerebbe questo emisfero
riducendolo in cenere, anch’io
adempio al volere del fato
dandoti, o sole, un’opportunità
di misericordia su questa mia vita indifesa.
VI
Civis americanus sum. Ho giurato
fedeltà alla Bandiera di Cinquanta Stelle:
Evviva l’America! L’America evviva!
Ora appartengo alla terra le cui ferite
creano un’alba ed un epico canto
che né silenzio né tempo potranno affievolire.
Ora, ora soltanto per ogni ingiustizia subita
finalmente scopro la mia identità:
sono la enorme folla italiana.
Sono il presente perché sono il passato
di quanti per il loro futuro son giunti,
umili ed innocenti eppure scacciati.
Io sono il sogno del loro giorno eterno,
il sogno sognato in miniere senza luce;
io sono il loro buio e il loro raggio supremo,
il loro silenzio e la lor voce: parlo e scrivo
perché loro sognarono ch’io scrivessi e parlassi
della lor morte in nessun registro notata.
O gloria! Sono il pane ch’essi vennero a cercare,
il tralcio piantato per la loro unica estasi,
il loro più solenne picco duraturo.
A questa mia vita ha fatto ampio largo la lor morte.
Da Gente mia e altre poesie (1978)
Traduzione di Maria Pastore Passaro
Tramonto tra gli ulivi di Puglia. Foto Archivio Fotogramma